seconda Historia
Seconda Historia Semiseria
della Casata de la Baronia
Dal Verme de la Vignagranda
1661
Quando Rubizzo, fondatore dell’Ordine dei Cavalieri Dal Verme, ereditò il titolo baronale succedendo al padre, si preoccupò di conoscere le origini della sua famiglia. Unico discendente del nobile casato, inconsapevole fino ad allora degli illustri natali, iniziò la ricerca dalla galleria degli antenati del castello di Vignagranda. Personaggi tutti col naso rosso e gli occhi lucidi ammiccavano dai quadri mostrando negli abiti, nei simboli, nelle onorificenze l’apporto personale al lustro della stirpe. Fu attratto subito dal capostipite che sullo sfondo della città di Milano mostrava con orgoglio lo stemma: uno scudo sormontato da corona baronale. Al centro troneggiava un arnese a vite, una bottiglia, un grappolo d’uva e il cartiglio con la scritta “In vermine fidens”. Sole e luna con una stellina completavano il blasone.
Incuriosito Rubizzo decise che doveva saperne di più sull’antenato Mosto dal Verme. Come mai si trovava a Milano? Perché lo stemma metteva in risalto un arnese a forma di biscia, quello stesso che lui da neonato aveva stampigliato nel medaglione che portava al collo?
Nei giorni successivi, mentre prendeva visione e possesso del castello, salì sulla torre chiamata “Brindisi” dove sapeva esserci una ricca biblioteca. Ogni ambiente nella dimora di Vignagranda aveva un nome, ad esempio il salone dei ricevimenti si chiamava “Sala delle bevute allegre”, la camera da letto padronale “Camera degli innesti”, persino la cappella, invece di essere dedicata a un santo, si chiamava: “Cappella del Santo Graal”.
Allogata in tre stanze circolari, una sopra all’altra, la biblioteca aveva le pareti rivestite da inusuali scaffalature costituite da vecchie doghe, tratte da botti generose profumate di vino, che assecondavano la rotondità delle pareti. Rubizzo passò qualche giorno a sfogliare antichi testi, cronache, documenti e scoprì che l’avo era stato Capitano di ventura a Milano presso Lodovico il Moro. In quel periodo si era coperto di gloria e aveva ottenuto benefici e proprietà. Era ritornato definitivamente nei suoi possedimenti dopo qualche tempo, interessandosi solo di vino, vino e ancora vino.
Rubizzo convocò al castello il famoso dottissimo storico Bianchetto delle Vigne che gli confermò le conoscenze apprese e gli disse che la corte di Milano sotto il Moro e la moglie Beatrice d’Este era famosa per la presenza di artisti insigni. Tra questi Leonardo e il Bramante. Il primo, rispettato per la lingua tosca era sempre preso da studi, fantasie e disegni e con la testa piena di idee inventava marchingegni straordinari arrivando persino a spiare gli uccelli per capire come facessero a volare. Il secondo era “nomato” per l’eccellenza nell’arte del costruire e per “la facundia grande” nei versi.
“E di Mosto a Milano, che mi dici?”
Bianchetto rispose che sicuramente faceva parte della cerchia dei grandi cortigiani del Moro e che mai aveva perso il favore del Signore; era ritornato quando era stato nominato “Ufficiale del Naviglio”, carica ovviamente intollerabile dovendosi occupare di acqua.
Rubizzo non si accontentò delle notizie di Bianchetto e quasi preso da ubriacatura cominciò a cercare nelle soffitte, nelle cantine, ovunque per saperne di più.
Una sera, dopo aver fatto il bagno in uno spumantino della Franciacorta, si attardò in giardino a giocare col suo merlo addomesticato di nome Merlot. Il volatile sembrava schernirlo, era insuperabile nel trovare col becco vermetti che si attorcigliavano come la bisciolina del suo stemma.
“Non mi resta che l’archivio” pensò Rubizzo, deciso a trascorrere la notte nel luogo polveroso e dimenticato, chiamato “Barricaia”, dove le carte di famiglia erano poste a invecchiare in tinozzi invece che in scaffali e cassetti... per fortuna in ordine, perché a nessuno era mai venuto in mente di consultarle. Così il giovane barone, al lume di una torcia e di varie candele, cominciò l’immane lavoro soffermandosi su quei tini che avevano stampigliato a fuoco date relative agli ultimi anni del 1400. A metà della notte, dopo essersi rinfrancato con un boccale di Lambrusco, giusto per riprendere vigore, trovò diversi documenti interessanti riguardanti Mosto Dal Verme. Il plico, composto da fogli rilegati e no, era intitolato: “Memoriae”.
Seduto su un tino da uva rovesciato, Rubizzo passò il resto della notte a sfogliare avidamente pagine di note vergate con grafia minuta. Cenni su battaglie, intrighi, amorazzi, feste, cerimonie e scampoli di vita privata. Divertenti e goliardiche le pagine riguardanti le notti trascorse nelle taverne lungo il Naviglio con gli amici Leonardo e Bramante a poetare e gozzovigliare davanti a boccali di Barbera. Un foglietto volante riportava un sonetto del Bramante sulle sue scarse finanze messe pateticamente in poesia:
“Emo le calze mie tutte stracciate, unte che tovaglie da taverne, tal che i ginocchi per pietà fraterne, l’un pianse ad un balcon, l’altro andò frate!”
Un secondo brandello di pagina, anomala perché gialla e spessa come quelle che coprivano i tavoli d’osteria, mostrava bozzetti accompagnati da brevi didascalie in grafia speculare. In fondo, a mo’ di firma, un nome mangiucchiato dalle termiti della carta. Restava una L maiuscola e dopo l’ammanco“...Gran maestro di feste e banchetti”.
Con la lente e uno specchio per leggere la grafia sinistrorsa, Rubizzo riconobbe negli schizzi... dei tappi e... uno strumento a vite che aveva l’aria di essere un cavatappi.
“Grande!” esclamò esaltato, “Il mio antenato era presente quando Leonardo quasi per gioco disegnò anzitempo l’oggetto indispensabile per svelare i profumi e i sapori del buon vino racchiusi in bottiglia. La sua allegria aumentò quando in una pagina delle memorie trovò il racconto di quella serata di bisbocce. Per farla breve, in quell’occasione, Donato, Leonardo, Mosto e, in incognita, Lodovico avevano gareggiato nell’inventare strumenti e oggetti stravaganti. L’idea di conservare meglio il vino utilizzando una corteccia a chiusura del collo di bottiglia era stata del Moro, ma tutti avevano ribadito che per gustarlo si sarebbe poi dovuto rompere il vetro. Fu Mosto a pensare a uno strumento composto da tre parti: manico, asta e verme, utile a rendere possibile la degustazione. Leonardo schizzò sulla tovaglia fatta di carta gialla il curioso arnese e il Signore di Milano, frizzante come uno spumantino e pastoso come un passito, volle che il Da Vinci, Gran Maestro delle feste e dei banchetti, disegnasse anche il nuovo stemma del casato di Mosto per ricompensarlo della brillante idea. Il cartiglio “In vermine fidens”, pensato giocosamente dal Bramante ornò il blasone del Signore di Vignagranda e da quel giorno l’epiteto “Dal Verme” fu aggiunto al nome di Mosto e alla sua discendenza.
Rubizzo lasciò la Barricaia ch’era mattino. Soddisfatto e felice per il buon esito della ricerca, un po’ brillo per la stanchezza, si diresse munito dell’occorrente alla galleria degli antenati e di sua mano con un pennellino sull’angolo dello stemma rappresentato nel quadro del capostipite aggiunse: “Pinxit Mea - L.”
GIOVANNA GIACOBAZZI
Venezia, novembre 2013